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Ecografia o mammografia: cosa fare?

Il tumore al seno è la neoplasia più diffusa nel sesso femminile, e lo screening oncologico è utilissimo per identificare precocemente le formazioni maligne.

Particolare attenzione allo screening dovrebbe essere prestata da coloro che hanno familiarità per il cancro al seno. Le tecniche che vengono impiegate per la diagnostica precoce del cancro al seno sono la ben nota mammografiae l’ecografia mammaria.

Entrambe sono metodiche di screening molto efficaci e affidabili, ma talvolta ci si può chiederequale sia la migliore. Cerchiamo di capirlo insieme, considerando quali sono le differenze tra le due tecniche, i loro vantaggi e i loro limiti.

Mammografia: consente di identificare 9 tumori su 10

La mammografia non è altro che una radiografia alla mammella. Attraverso il suo impiego è possibile rilevare la presenza di micro-calcificazioni o noduli di piccole dimensioni sospetti o altri tipi di lesioni che fanno ipotizzare la presenza di un tumore. In Italia è considerata la tecnica di screening più efficace, come testimoniato dai dati a disposizione del ministero della salute: la mammografia consente di identificare circa 9 tumori su 10, prima ancora che questi risultino palpabili.

Oggi gli strumenti radiografici usano basse dosi di radiazioni, quindi sono ancora più sicuri dei precedenti, garantendo comunque un’ottima sensibilità diagnostica. La mammografia è molto utile soprattutto per le donne che hanno mammelle in involuzione.

Sottoporsi alla mammografia con cadenza biennale è consigliato tra i 50 e i 69 anni, fascia d’età per la quale lo screening mammograficoè gratuito in Italia. Tuttavia, anche dopo i 40 anni può essere utile effettuare l’esame, soprattutto se sono noti fattori di rischio o, ovviamente, noduli che devono essere monitorati. Per le donne con familiarità per il tumore della mammella invece, la raccomandazione è di sottoporsi all’esame già a partire dai 35 anni.

In molte regioni, lo screening per la diagnosi precoce del tumore al senoviene effettuato in una fascia di età più ampia compresa tra i 45 e i 75 anni (con una periodicità annuale dopo i 50 anni) e, inoltre, nella pratica clinica, alla mammografia bilaterale vengono associate la ecografia della mammella e la visita senologica.

In linea generale, è possibile affermare che la prevenzione del tumore al seno deve cominciare attorno ai 20 anni con autopalapazione eseguita a cadenza mensile e regolare. Risulta poi necessario eseguire controlli annuali dal senologo a cui affiancare, dai 50 anni in poi, la mammografia o, se necessita in donne giovani, l’ecografia mammaria

 

Ecografia mammaria: per le giovani donne

L’ecografia mammaria è un normale esame ecografico, cioè un esame eseguito attraverso l’impiego di una sonda che emette ultrasuoni consentendo di visualizzare la struttura mammaria.

Attraverso l’ecografia mammaria è possibile valutare la componente adiposa e la componente fibrosa del tessuto mammarioed è particolarmente utile per individuare i fibroadenomi o le cisti. Gli ultrasuoni, infatti, vengono riflessi in modo diverso in base alla composizione del tessuto. Essi, dunque, consentono di distinguere se un nodulo è solido o liquido e, in generale, permettono di identificare le caratteristiche di una lesione tissutale.

Per le sue caratteristiche tecniche, essa è maggiormente informativa se effettuata su donne giovani. L’ecografia mammaria, infatti è particolarmente affidabile nella rilevazione delle lesioni in mammelle dense, tipiche delle donne giovani, o con una componente ghiandolare molto sviluppata. In questi casi, infatti, la mammografia è meno affidabile, a causa di un limite tecnico dovuto proprio all’utilizzo delle radiazioni.

L’ecografia mammaria, inoltre, poiché non utilizza radiazioni, è l’esame consigliato per esaminare le mammelle durante la gravidanza(qualora fosse necessario).

Diversamente dalla mammografia, infine, l’ecografia mammaria può essere associata alla procedura di agoaspirazione, ovvero un prelievo su un nodulo sospetto attraverso un ago.

Dunque, che esame scegliere tra mammografia ed ecografia mammaria?

In conclusione, tra mammografia ed ecografia mammaria non esiste un esame migliore in assoluto, ma solo uno più adatto alla donna che deve sottoporvisi.

L’importante è che, dopo i 40 anni o tra i 50 e i 69 anni, ci si sottoponga ad uno screening oncologico con regolarità, a maggior ragione se sono noti fattori di rischio per il cancro della mammella.

Entrambe le procedure, infatti, consentono di diagnosticare precocemente il tumore al seno ed intervenire tempestivamente, evitando che questo progredisca.

Visita ginecologica: Quali esami effettuare?

Solitamente nel controllo annuale sono svolti i seguenti esami:

  • il PAP TEST che consiste nel prelievo della mucosa cervicale tramite un tampone (un lungo cotton-fioc) il quale verrà successivamente analizzata in laboratorio. Grazie a questo esame è possibile diagnosticare, in fase precoce, la presenza del Papilloma virus, la causa principale del CANCRO AL COLLO DELL'UTERO. Inoltre, è possibile individuare possibili infezioni e alterazione della mucosa vaginale;
  • un’ECOGRAFIA PELVICA, ovvero un’ispezione della cavità uterina tramite una sonda ecografica che consente di individuare la possibile formazione di cisti, fibromi o la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS). L'esame dovrebbe risultare indolore, al più fastidioso;
  • la palpazione del seno, volta a individuare la possibile formazione di noduli e cisti. In caso la palpazione risulti sospetta, o per la presenza di un gran numero di noduli e cisti o per la presenza di noduli di grandi dimensioni, questa può essere accompagnata da un’ ECOGRAFIA AL SENO per escludere la presenza di NODULI TUMORALI e per verificare che da un anno all’altro non si modifichi il quadro senologico.

Se lo ritiene necessario, il medico può prescrivere ulteriori esami diagnostici volti ad approfondire delle criticità emerse in sede di visita specialistica. Gli esami più comunemente prescritti sono:

  • ESAMI DEL SANGUE CON DOSAGI ORMONALI;
  • ecografia transvaginale;
  • COLONSCOPIA (serve ad approfondire i risultati del PAP test in caso di sospette lesioni precancerose o cancerose);
  • ecografia con ecodoppler;
  • MAMMOGRAFIA

Quando fare una visita ginecologica?


La visita ginecologica dovrebbe essere un abitudine di tutte le donne, un check-up da farsi annualmente. È consigliabile iniziare dalla pubertà (inizio del periodo fertile della donna) o comunque dall’inizio dell’attività sessuale. Questo è particolarmente importante per poter diagnosticare in tempo malattie sessualmente trasmissibili che spesso sono di difficile individuazione in quanto asintomatiche nelle fasi iniziali.

 


 
Oltre alle periodiche visite, vi sono alcuni "campanelli d'allarme" che devono indurre la donna a prenotare immediatamente una visita presso il proprio ginecologo. Tra questi sono inclusi:

  • perdite di sangue fuori dal periodo mestruale;
  • dolore pelvico;
  • perdite di muco vaginale troppo abbondanti, di odore e colore diverso rispetto alla norma (maleodoranti e non bianche);
  • bruciore vaginale, dolore durante i rapporti sessuali (che viene indicato con il termine medico dispareunia);
  • addome insolitamente gonfio;
  • mestruazioni dolorose o eccessivamente abbondanti;
  • interruzione del ciclo mestruale per più di due mesi o mestruazioni ravvicinate (ogni 15 giorni);
  • seno che cambia forma o che presenta noduli palpabili o che inizia a secernere liquido dal capezzolo;
  • durante il periodo della gravidanza, perdita di sangue o contrazioni precoci.

La visita urologica e gli esami da fare

La visita urologica ha lo scopo di indagare eventuali disturbi e malattie a carico dell’apparato urinario di uomini e donne o degli organi riproduttivi maschili. Non comporta dolore, non è invasiva, ma può essere associata a ecografia del basso addome o – nelle donne – transvaginale, e per questa ragione può essere necessario presentarsi con la vescica piena. Inoltre lo specialista, al momento della prenotazione, può richiedere alcuni esami, in particolare test del sangue e delle urine, da presentare al momento della visita. Il primo passaggio, però, come sempre quando si parla di controlli specialistici, è l’anamnesi, che consiste in una chiacchierata tra medico e paziente. Attraverso questo colloquio l’urologo raccoglierà informazioni importanti sullo stato di salute generale e l’eventuale familiarità con alcuni tipi di malattie (es. tumori) a carico dell’apparato urinario, sull’assunzione (o meno) di farmaci, sullo stile di vita e sui sintomi avvertiti dal paziente. Dopo questa prima fase propedeutica, si passerà all’esame obiettivo, che per ovvie ragioni si differenzia a seconda del sesso del paziente.
 


Visita urologica maschile:
Prevede un esame del basso ventre e agli organi genitali, ed eventualmente un controllo della prostata attraverso una palpazione del canale rettale. Questo controllo permette di rilevare anomalie come ingrossamenti e tumefazioni sospette.

Visita urologica femminile:
Anche in questo caso alla palpazione del basso addome si associa un controllo ginecologico soprattutto in caso di prolasso vescicale o uterino, condizioni che sono all’origine di fenomeni di incontinenza.
A seconda del problema riscontrato lo specialista può richiedere ulteriori indagini diagnostiche tra cui:

  • Esami ematici (PSA per la diagnosi precoce del carcinoma prostatico e creatininemia per valutare la funzionalità renale)
  • Ecografia
  • TAC
  • Risonanza magnetica
  • ESAME DELLE URINE con eventuale urinocoltura in caso di IVU
  • ECOGRFIA PROSTATICA RETTALE
  • Ecografia transvaginale
  • CITOLOGIA URINARIA, utile in caso di sospette neoplasie alle vie urinarie
  • Citoscopia, ovvero l’ispezione di uretra e vescica con l’ausilio di una sottile sonda munita di microcamera in caso di sospetto tumore vescicale
  • SCINTIGRAFIA RENALE sequenziale e dinamica utile soprattutto per individuare anomalie alle alte vie urinarie (reni e ureteri)
  • UTINOFLUSSIMETRIA, esame semplice e non invasivo che si effettua in caso di riduzione nella minzione o difficoltà ad urinare (disuria)
  • Esame del liquido seminale in caso di infertilità maschile
  • Ecografia scrotale in caso di sospetto tumore ai testicoli

Urologia, la prevenzione inizia fin da giovani

Il sesso forte? Potrebbe esserlo di più: quando si tratta di salute e soprattutto di prevenzione infatti appare un po’ debole. Così come è ancora debole la cultura in tema di malattie al maschile e per questo occorre creare un nucleo di informazione e sensibilizzazione  nelle tre principali fasce d’età: adolescenza, età adulta ed età matura. A fare il punto un convegno a Roma intitolato “Prevenzione Alpha” che ha individuato fra gli uomini italiani oltre 10 milioni di casi di problemi urologici. Da qui ha mosso i primi passi la campagna informativa della Società Italiana di Urologia. «Quando si parla di salute sessuale, di visite urologiche, di disfunzioni, ha sottolineato Giuseppe Mele, presidente dell’Osservatorio Paidoss e della Società italiana medici pediatri - il  pensiero va subito alla terza età. Si pensa ai pensionati alle prese con problemi di prostata o con coliche renali. Nessuno, o forse pochissimi, riescono a capire che il cammino per la prevenzione inizia fin da giovani. Il  10% degli uomini fra i 40 e i 50 anni ha già una diagnosi di ipertrofia prostatica benigna (IPB), la prevalenza sfiora il 35% fra i 50-60enni». L’indagine, pubblicata dall’Archivio Italiano di Urologia e Andrologia, ha permesso di individuare i fattori di rischio associati allo sviluppo della malattia urologica negli uomini italiani: avere la pressione alta, per esempio, incrementa la probabilità di ipertrofia (Ipb) del 50%, il diabete la fa salire del 57%, mentre il colesterolo e i trigliceridi alti fino al 37%,di più rispetto agli over 50.

Principali patologie dell'apparato urinario

Cistiti, calcoli renali, prostatiti… sono diverse le affezioni che possono colpire il tratto urinario maschile e femminile, e gli organi riproduttivi nell’uomo. Vediamo quali sono le principali disfunzioni e patologie che devono essere indagate e curate da uno specialista in urologia.
Nell’uomo:

  • Tumori della vescica, del pene, del rene, dei testicoli, delle ghiandole surrenali e della prostata
  • Ingrossamento della prostata
  • Disfunzione erettile o difficoltà e/o dolore a raggiungere e mantenere un’erezione
  • Infertilità
  • Cistite interstiziale, un’infiammazione della vescica non riconducibile a infezione batterica o fungina
  • Disturbi renali
  • Calcoli renali
  • Prostatite, infiammazione della ghiandola prostatica
  • Infezioni urinarie (IVU), di cui la più comune è la cistite, in genere dovuta a contaminazione batterica
  • Varicocele, formazione di varici nello scroto

Nella donna:

  • Prolasso della vescica a causa di un cedimento del pavimento pelvico, una anomalia che può verificarsi nelle donne anziane, o comunque dopo la menopausa nella maggior parte dei casi
  • Cancro della vescica, del rene o delle ghiandole surrenali
  • Cistite interstiziale, molto più frequente nelle donne rispetto agli uomini
  • Calcoli renali
  • Vescica iperattiva, una disfunzione causata da uno spasmo continuo e involontario del muscolo che circonda la vescica (muscolo detrusore) e che induce uno stimolo continuo alla minzione
  • Infezioni urinarie (IVU), anche in questo caso molto più frequenti nella popolazione femminile per ragioni anatomiche
  • Incontinenza urinaria

Nei bambini:

  • Enuresi notturna (pipì a letto). Un problema da trattare quando si verifica in un’età in cui il bambino deve aver già acquisito il controllo della vescica
  • Problemi al tratto urinario, difficoltà nella minzione, blocco urinario
  • Infezioni urinarie (IVU)
  • Testicoli retrattili o ascendenti

Primo ciclo dopo la gravidanza: come fare

 

 
Primo ciclo dopo la gravidanza
 

Subito dopo aver partorito comincia il periodo delle cosiddette lochiazioni, una sorta di anticipo del vero e proprio ciclo, che arriverà terminato l’allattamento al seno. Le locazioni sono perdite piuttosto abbondanti che possono durare 10-15 giorni o più. Il periodo che va fino al 40° giorno dopo il parto è il puerperio. Ma quando torna il vero e proprio ciclo mestruale? Il primo ciclo mensile si chiama capoparto e può tornare in momenti diversi a seconda che la mamma allatti al seno o no. Se allatta, il ciclo tornerà un mese dopo la fine delle poppate. Se invece non allatta al seno, il ciclo tornerà dopo circa un paio di mesi dal parto, il tempo necessario perché l'utero torni alle sue dimensioni originali.  

Ciclo dopo gravidanza

 

Rapporti sessuali dopo il parto
Qualche consiglio su come comportarsi correttamente, o meglio qualche notizia in più che forse le neomamme spesso sottovalutano, per non andare incontro a disturbi o problemi. Iniziamo col dire che i rapporti sessuali dopo il parto andrebbero ripresi dopo il periodo del puerperio, quindi una quarantina di giorni. In ogni caso ricordate che se avete rapporti sessuali durante il periodo dell'allattamento al seno, durante il quale quindi non vi è il ciclo mestruale, fate comunque uso di un metodo contraccettivo, facendovi consigliare dal ginecologo che vi segue. Il fatto che manchi il ciclo per via dell'allattamento non deve essere considerata una garanzia per non rimanere incinta. Il rischio aumenta soprattutto quando le poppate diminuiscono: se la produzione di latte cala, verrà a diminuire anche la concentrazione dell'ormone della prolattina. 

Ciclo dopo gravidanza
 
Cosa fare quando torna il ciclo
Una cosa da sapere è che una volta che torna il ciclo, potrà non essere più come prima della gravidanza.  Il capoparto, può sicuramente essere più abbondante e può durare qualche giorno in più rispetto a prima. Una volta che l'utero è tornato alle sue dimensioni originarie e una volta esclusa la presenza di fibromi il ciclo può presentarsi più intenso. Al contrario può presentarsi più scarso e di un colore scuro. In ogni caso, non dimenticatevi di prenotare la visita post partum. E' molto importante effettuare questa visita e si può fare dopo il periodo di puerperio o comunque una volta arrivato il capoparto, è indispensabile non solo per vedere, tramite ecografia interna, se l'utero è tornato alle sue dimensioni, ma anche per controllare la presenza di eventuali fibromi piuttosto che polipi, magari già presenti durante la gravidanza che può alterarne il volume. La visita ginecologica è importante inoltre per effettuare il pap test, esame che dovrete effettuare annualmente per scongiurare qualsiasi infezione.

“La Salute e’ un diritto, non un bene”

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Il tumore più frequente in Italia è diventato quello della mammella: nel 2018 sono stimati 52.800 nuovi casi l

Al Nord si registrano i tassi migliori di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi (Toscana 65%).
In coda invece il Sud, con Sicilia (60% donne), Sardegna (60%) e Campania (59%).

In Italia la prima causa di morte oncologica è costituita dal carcinoma del polmone (33.836 decessi nel 2015), seguito dal colon-retto (18.935) e dalla mammella (12.381).

Quindi il tumore alla mammella e’ il più frequente ma non il più letale: ciò implica che lo screening e le cure sono efficaci, se preso in tempo.

E’ noto che il cancro del seno, insieme a quello della cervice uterina e del tumore del colon-retto sono gli unici tre validati dall’Unione Europea. 


Fondamentale e’ sollecitare le persone ai programmi di screening.


Inoltre devono essere garantite la qualità delle apparecchiature e la perizia degli operatori.

“La Salute e’ un diritto, non un bene”

La dieta mediterranea protegge dal diabete

Una dieta a basso carico glicemico, come la dieta mediterranea, può ridurre l'incidenza di diabete di tipo 2. Lo dimostra uno studio del Dipartimento di Epidemiologia dell'Istituto Mario Negri di Milano diretto da Carlo La Vecchia. Gli autori della ricerca, pubblicata su Diabetologia, hanno analizzato i dati di 22.295 cittadini greci partecipanti allo studio "European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition", tuttora in corso. Fra queste persone, seguite per 11 anni, si sono verificati 2.330 casi di diabete tipo 2. Le informazioni sui loro consumi alimentari hanno permesso di definire per ogni soggetto un punteggio da 0 a 10 sull'aderenza alla dieta mediterranea (DM) e un altro per misurare i carboidrati disponibili nella dieta in termini di carico glicemico (GL).

 

 

I NUMERI - Incrociando i dati è emerso che coloro che hanno un indice DM sopra 6 hanno un rischio di diabete ridotto del 12% rispetto a chi ha meno di 4; chi è nel livello più alto di GL ha un rischio aumentato del 21% rispetto a chi è nel livello più basso. Ma una dieta che combina aderenza alla DM e carboidrati 'light' o a basso GL riduce il rischio di diabete del 20%. «Il ruolo della dieta mediterranea nel controllo del peso è controverso - dice Marta Rossi, primo autore del lavoro - e l'aderenza alla DM non è associata a variazione di peso. Ciò suggerisce che la protezione della dieta mediterranea contro il diabete non avviene tramite il controllo del peso, ma con altri fattori dietetici».

OLIO DI OLIVA - «Una peculiarità della dieta mediterranea - aggiunge Federica Turati del Mario Negri - e una possibile spiegazione del suo effetto protettivo è l'olio extravergine di oliva, ricco di grassi monoinsaturi e povero di grassi saturi». Quanto ai carboidrati, La Vecchia spiega che «una dieta con un alto carico glicemico porta rapidi aumenti di glucosio e conseguenti aumenti di insulina nel sangue. L'aumentata richiesta di insulina porta a lungo andare a un progressivo declino funzionale delle cellule beta del pancreas e di conseguenza a un'alterata tolleranza al glucosio e a una maggiore resistenza all'insulina, fattore predittivo del diabete».

CARBOIDRATI - Il minor rischio di diabete, quindi, si ha certamente seguendo la dieta mediterranea, ma utilizzando anche carboidrati a basso indice glicemico. Fra i carboidrati ad alto indice glicemico: glucosio, pane bianco, cereali, uva, riso. A moderato indice: pane integrale, pasta, arance, cereali integrali. A basso indice: fruttosio, yogurt, piselli, mele, fagioli, noci, riso parboiled.

Esami del sangue Una sintetica «biblioteca» dei principali valori che si possono trovare sul referto

Capire e interpretare gli esami di laboratorio è compito del medico. I valori dei test ematici, infatti, molto raramente dicono qualcosa di significativo se considerati singolarmente. Possono dare indicazioni attendibili solo se letti nel loro insieme e interpretati in base alle caratteristiche della persona per la quale sono stati richiesti dal medico.

Lo scopo delle informazioni che si possono trovare in questa pagina e in quelle correlate non è quindi di indurre a una lettura «fai da te» (inutile e persino potenzialmente pericolosa) dei parametri che si possono trovare sul referto del laboratorio e che, comunque, variano in relazione alla metodica di laboratorio usata, ma, piuttosto, di fornire una base culturale per capirsi meglio col medico, e prepararsi, eventualmente, a fargli le domande giuste.

 

 
 

Laboratorio Analisi Ortokinesis: garanzia di qualità!

Gli esami di laboratorio vengono svolti da personale medico-biologico di grande esperienza e da tecnici di provata competenza, utilizzando le strumentazioni più aggiornate, le tecnologie più avanzate ed un sofisticato sistema di elaborazione, archivio e trasmissione dati.

 

Aree tecniche di diagnosi clinica:

  • Allergologia
  • Andrologia e fisiopatologia della riproduzione
  • Biochimica generale
  • Biologia molecolare
  • Citogenetica, Amniocentesi e diagnosi prenatale
  • Ematologia e coagulazione
  • Endocrinologia – ormoni/metabolismo
  • Farmacologia e tossicologia
  • Immunologia e sierologia
  • Citopatologia ed istopatologia
  • Microbiologia, virologia e parassitologia
  • Monitoraggio biochimico ed ormonale della gravidanza
  • Oncologia e markers tumorali

Il Laboratorio è condotto e supervisionato da un gruppo di specialisti che sono attivamente e quotidianamente coinvolti nel controllo di qualità degli esami di laboratorio.

Novembre mese della prevenzione del carcinoma prostatico

La diagnosi precoce e’ un aspetto fondamentale nella gestione del carcinoma della prostata.
La presenza o assenza di una sintomatologia non e’ un criterio discriminatorio perche il carcinoma prostatico in fase precoce non da’ sintomatologia clinica.


I soggetti maschi di eta’ a partire dai 50 anni ed, in caso di familiarita’, a partire dai 40 anni dovrebbero controllare con regolarita’ i valori sierici del PSA (antigene specifico prostatico) su campione di sangue e qualora si sia in presenza di un persistente rialzo dei valori effettuare un esame di ecografia della prostata


La metodica è rappresentata dall’associazione di differenti tecniche di studio rappresentate da: studio morfologico per la valutazione dell’anatomia della ghiandola e della lesione; studio di Spettroscopia a idrogeno per la valutazione metabolica della ghiandola e della lesione; studio di Diffusione per la valutazione del grado di proliferazione e di danno cellulare della lesione; studio di Perfusione acquisito durante somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto paramagnetico per la valutazione della vascolarizzazione della lesione. L’elaborazione e la correlazione di tutti dati ottenuti con le diverse tecniche generano delle zone in cui si sospetta la sede della/e lesione/i.



Conoscete Ormone antimulleriano? Sapete che questo ormone incide sulla fertilità di una donna?

L’ormone antimulleriano è una glicoproteina che si può misurare con delle analisi del sangue specifiche e che viene spesso utilizzata come marcatore per comprendere se la donna abbia problemi di infertilità. Come vedremo in modo più approfondito tra poco, nelle donne l’AMH tende ad aumentare, per poi diminuire mano a mano che ci si avvicina alla menopausa. Nell’uomo invece accade il contrario: l’ormone antimulleriano è presente in buone quantità fino ai 2 anni di età e da quel momento inizia a calare sempre di più. E’ quindi del tutto normale che dopo la pubertà gli uomini abbiano quantità minime di tale proteina nel sangue. 

 

Spesso, quando la donna ha difficoltà nel rimanere incinta, si procede alla misurazione dell’ormone antimulleriano. Se infatti i suoi valori sono troppo bassi significa che i follicoli ovarici vengono prodotti in quantità insufficienti o che non risultano attivi come dovrebbero. Va precisato che la misurazione dell’AMH può essere effettuata anche per identificare patologie specifiche come la sindrome dell’ovaio politeistico

Ormone antimulleriano: cos’è e quali sono le differenze tra uomo e donna

Come abbiamo già accennato, l’ormone antimulleriano è una glicoproteina che si può dosare nel sangue e che viene prodotta rispettivamente dai testicoli negli uomini e dai follicoli ovarici nelle donne. Svolge un ruolo primario durante la differenziazione sessuale dell’embrione e segue un andamento differente tra uomo e donna.

 

Nell’uomo, l’ormone antimulleriano viene prodotto in quantità elevate fino ai 2 anni di età e svolge un ruolo importantissimo perchè impedisce la formazione degli organi genitali femminili. Dopo i 2 anni, i livelli di questa glicoproteina tendono a calare progressivamente fino a scomparire quasi completamente con il sopraggiungere della pubertà.

Nella donna, al contrario, l’ormone antimulleriano è molto basso alla nascita e tende ad aumentare progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pubertà. Dopodichè, inizia a calare nuovamente fino a scomparire del tutto quando sopraggiunge la menopausa. 

L’albumina è la più abbondante proteina presente nel plasma. Prenota un prelievo per controllare la tua

L’albumina è la più abbondante proteina presente nel plasma; di piccole dimensioni, è sintetizzata dal fegato e, pertanto, nelle gravi insufficienze epatiche la concentrazione di albumina plasmatica diminuisce. Ovviamente, anche gravi carenze nutrizionali possono spiegare una diminuzione generalizzata delle proteine circolanti, tra cui l’albumina. Le funzioni dell’albumina sono tre: trasporto dei metaboliti di per sé insolubili nell’acqua (es. bilirubina, acidi grassi liberi, ormoni tiroidei), mantenimento della pressione oncotica ( fondamentale per il controllo degli scambi idrici fra capillari e liquido interstiziale), riserva di aminoacidi (può infatti penetrare nelle cellule ed essere demolita per permettere la sintesi di altre proteine). Il turnover dell’albumina è elevato tanto che il 50% delle molecole prodotte viene degradato entro 10 giorni.

Una diminuzione di albumina plasmatica può essere causata da insufficiente sintesi epatica (cirrosi), da malnutrizione proteica (Kwashiorkor) o per eccessiva eliminazione con le urine per alterazioni del filtro glomerulare.

INDICAZIONI CLINICHE

Valutazione funzionalità renale, valutazione funzionalità renale, diagnostica dell’edema.

TIPO DI CAMPIONE

Il paziente si deve sottoporre ad un prelievo di sangue. Urina temporizzata (per poter calcolare la quantità di albumina eliminata per unità di tempo). Prime urine del mattino (per poter normalizzare l’albumina eliminata per la creatinina urinaria).

PREPARAZIONE

 

E’ necessario osservare un digiuno di almeno 8 ore, è ammessa l’assunzione di una modica quantità di acqua. Per la raccolta delle urine temporizzata seguire le istruzioni fornite dal laboratorio.

Acido Urico: da cosa più essere causato l'aumento

L’acido urico è il prodotto terminale del catabolismo dei nucleotidi purinici e cioè l’acido adenilico (AMP) e l’acido guanilico (GMP). I nucleotidi sono le unità fondamentali degli acidi nucleici (DNA e RNA) ma svolgono, anche in forma libera, un ruolo importante nel nostro metabolismo. L’acido urico è poco solubile in acqua e un aumento della sua concentrazione sanguigna può portare alla sua precipitazione nei tessuti articolari (tofi gottosi) o nelle vie urinarie (calcoli renali). L’aumento della concentrazione di acido urico nel sangue deriva da uno squilibrio tra la sua produzione e la sua eliminazione (2/3 con le urine ed 1/3 con la bile). Un aumento della produzione può essere dovuto ad una ipergenerazione endogena da aumentato catabolismo o ad una dieta particolarmente ricca di acidi nucleici (carne, specialmente fegato, reni), mentre una diminuzione della sua eliminazione è dovuta ad alterata funzionalità renale.

Un aumento dell’acido urico sierico può essere dovuto a gotta primaria, insufficienza renale, leucemia, mieloma multiplo, policitemia, psoriasi; un aumento dell’escrezione giornaliera di acido urico può essere dovuto a leucemia, malattia di Wilson, gotta.

Una diminuzione dell’acido urico sierico può essere dovuta a malattia di Wilson, epatite virale, diete povere di purine; una diminuzione dell’escrezione giornaliera di acido urico può essere dovuta a deficienza di acido folico, intossicazione da piombo, digiuno

INDICAZIONI CLINICHE

Sospetta gotta, monitoraggio del trattamento farmacologico dell’ipeuricemia, monitoraggio degli effetti catabolici della chemioterapia.

TIPO DI CAMPIONE

Il paziente si deve sottoporre ad un prelievo di sangue.

 

Se richiesto il paziente deve raccogliere le urine delle 24 ore.

Acetone: perché fare delle analisi per controllarlo

L’acetone è una molecola normalmente presente nel nostro organismo in piccole quantità. Un eccesso di produzione di acetone si ha in condizioni di severa carenza di zuccheri, quando l’organismo è costretto ad utilizzare quasi esclusivamente i grassi per soddisfare il metabolismo. L’acetone è volatile e può pertanto essere eliminato attraverso la respirazione, conferendo all’aria espirata un caratteristico odore di frutta  matura. Ecco spiegato il caratteristico alito dei bambini affetti dal cosiddetto “acetone” in seguito a febbre elevata (e quindi con metabolismo accelerato) aggravata da un’insufficiente alimentazione (quindi in carenza di carboidrati), e infatti l’  “acetone” dei bambini si corregge semplicemente dando loro acqua e zucchero.

 

Un eccesso di acetone (ketoacidosi) da carenza di glucosio si può avere anche nel diabete scompensato (laddove la carenza di insulina fa si che il glucosio non riesca ad entrare in quantità sufficiente nelle cellule) e nel digiuno (specie se carboidratico) protratto.

L’acetone è impiegato ampiamente, quale solvente, nelle lavorazioni industriali e, se assorbito in dosi elevate, può provocare cefalea, vertigini, sonnolenza, epigastralgie, vomito, rinofaringite e congiuntivite. In caso di intossicazione da isopropanolo, l’acetone, suo principale metabolita, aumenta.

 

TIPO DI CAMPIONE

Il paziente si deve sottoporre ad un prelievo di sangue/urine.

PREPARAZIONE

È necessario osservare un digiuno di almeno 8 ore, è ammessa l'assunzione di una modica quantità di acqua. L'analisi su urina necessita di un campione prima e dopo il turno.

 

Borsite: cause, sintomi

 

 

La borsite è l’infiammazione della borsa sierosa di un’articolazione, ossia della sacca ripiena di liquido che si trova sotto pelle e che ha la funzione di fare da cuscinetto tra i tendini e le ossa. Quando questa sacca si infiamma, provoca dolore associato spesso a gonfiore ed irritazione della zona interessata. La borsite generalmente colpisce le articolazioni maggiormente utilizzate, che si muovono in modo ripetitivo e continuo come quelle dei gomiti, delle spalle, delle ginocchia e delle anche. L’infiammazione può interessare anche altre parti del corpo, come le caviglie, il tallone o i piedi ma è molto più rara in queste zone. 

 

La borsite può avere cause di diversa origine e natura: in alcuni casi alla base dell’infiammazione vi è un trauma, in altri un’infezione e in altri ancora deriva da una patologia preesistente.

Infezione e borsite settica

 

Una delle cause scatenanti questa infiammazione è l’infezione delle borse che si trovano vicine alla pelle, conseguenza di una ferita che si è infettata. In questi casi si parla di borsite settica ma è bene specificare che in condizioni normali il nostro sistema immunitario dovrebbe essere in grado di prevenire l’infezione delle borse. I soggetti che presentano maggiori fattori di rischio legati alla borsite settica sono i seguenti:

  • Pazienti affetti da HIV;
  • Pazienti con problemi di alcolismo;
  • Pazienti affetti da diabete;
  • Pazienti affetti da specifiche patologie a carico dei reni;
  • Pazienti in cura con alcuni tipi di farmaci come i corticosteroidi e i chemioterapici.

Trauma e movimenti ripetitivi

Un’altra causa frequente di borsite è la ripetizione di alcuni movimenti che non fanno altro che creare dei microtraumi continui alla borsa sierosa di un’articolazione e quindi alla lunga determinano una sua infiammazione. In questo caso, i soggetti che presentano un maggior rischio sono i seguenti:

  • Persone che svolgono un lavoro che prevede movimenti ripetitivi del ginocchio, dell’anca, del gomito, ecc.
  • Persone che praticano sport che prevedono movimenti ripetitivi delle articolazioni più frequentemente interessate da borsite;
  • Persone che hanno subito un trauma improvviso ad un’articolazione.

Patologie che possono causare l’infiammazione

 

Come abbiamo detto, questa infiammazione delle borse sierose può essere provocata anche da alcune patologie specifiche, ossia:

  • Artrite reumatoide;
  • Gotta;
  • Lupus sistematico;
  • Sclerodermia;
  • Spondilite anchilosante;
  • Obesità o sovrappeso.

Osteofitosi: di cosa si tratta? Cause e sintomi

L’osteofitosi è una condizione clinica che interessa le ossa e le articolazioni e che identifica la presenza di osteiti appunto. Si tratta di piccoli speroni ed escrescenze che si vengono a formare lungo i margini articolari delle ossa e che in alcuni casi possono provocare una sintomatologia dolorosa e fastidiosa. Va precisato che l’osteofitosi diventa un problema proprio in questi casi, ma spesso risulta del tutto asintomatica e in queste circostanze non richiede nessun tipo di cura o intervento. L’osteofitosi quindi non è una patologia grave o particolarmente preoccupante: se non comporta sintomi non richiede nemmeno trattamenti specifici perchè non compromette la salute del paziente.

 

Quando però diventa dolorosa, questa condizione deve essere curata e bisogna ricordare che non va nemmeno sottovalutata perchè potrebbe essere la spia di altre patologie che richiedono invece una terapia specifica.

Gli osteofiti si vengono a formare per via di un accumulo di calcio sulla cartilagine delle articolazioni, che dipende spesso da un’erosione o irritazione delle ossa. Il tessuto osseo necessita di una maggior superficie di contatto con quello articolare e di conseguenza si iniziano a formare queste escrescenze. In sostanza quindi, l’osteoartosi è quasi sempre determinata dalla presenza di una patologia a carico delle ossa e delle articolazioni, che comporta un erosione o un’infiammazione spesso degenerativa. Per questo motivo non bisogna mai sottovalutare il problema: anche se asintomatica, l’osteofitosi rappresenta un campanello d’allarme perchè all’origine di questa condizione c’è quasi sempre una malattia.

Come abbiamo già accennato, l’osteofitosi non è una condizione che è facile identificare soprattutto perchè spesso e volentieri è del tutto asintomatica. Se non presenta alcun sintomo non c’è di che preoccuparsi perchè questa patologia non deve essere trattata. Le cure sono previste solamente per ridurre la sintomatologia, che in alcuni casi può diventare molto fastidiosa e debilitante.

Quando sono presenti, i sintomi tipici dell’osteofitosi sono i seguenti:

  • Dolore durante il movimento dell’articolazione (che nei casi più gravi può prolungarsi anche quando si è a riposo);
  • Limitazione dei movimenti dell’articolazione;
  • Dolore e debolezza muscolare.

Osteofitosi marginale e centrale

L’osteofitosi può essere marginale oppure centrale: la differenza tra queste due tipologie riguarda esclusivamente l’orientamento degli osteofiti, che possono essere rivolti verso l’interno oppure verso l’esterno. La condizione più fastidiosa è l’osteofitosi marginale: in questo caso gli osteofiti sono orientati verso l’esterno e rischiano maggiormente di creare problemi e sintomi dolorosi.

Osteofitosi: le articolazioni più colpite

L’osteofitosi può colpire diverse articolazioni ma tra le sedi più comunemente interessate da questa condizione troviamo il ginocchio, l’anca, il piede, la mano, il collo (osteofitosi cervicale) e la fascia lombare. Naturalmente, a seconda delle collocazione del problema potrebbero presentarsi dei sintomi differenti ma in tutti i casi localizzati in quell’area.

 

 

Proteina C Reattiva alta o bassa: tutte le cause e quando preoccuparsi

La proteina C reattiva è una proteina viene sintetizzata dal fegato e dagli adipociti, che viene misurata nel sangue per verificare lo stato di salute del paziente. Se infatti la proteina C reattiva dovesse risultare superiore alla norma, significa che c’è qualcosa che non va come dovrebbe e che l’organismo sta affrontando qualche problema. 

 

 

Le cause di valori al di fuori della norma possono essere diverse ma sono sempre asccrivibili ad una patologia in corso, che può essere una banale infiammazione ma anche una malattia più seria come ad esempio l’artritereumatoide o una neoplasia. Se quindi la proteina C risulta più alta del normale, conviene sempre effettuare altri accertamenti per capire quale sia il problema che ha scatenato questo sintomo clinico, che non deve mai essere sottovalutato. Al contrario, se la proteina C risulta bassa non c’è nulla di cui preoccuparsi perchè significa che l’organismo non sta affrontando alcun processo di natura infiammatoria. Sono quindi solamente i valori alti che devono preoccupare e che necessitano di ulteriori approfondimenti.

Come abbiamo già accennato, la proteina C reattiva è una proteina che viene prodotta dal fegato solamente quando l’organismo deve fare fronte ad uno stato infiammatorio acuto. La si può rilevare nel sangue e quindi è sufficiente un prelievo per capire quali sono i valori di tale proteina e quando c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe.

La proteina C reattiva viene misurata per monitorare lo stato di salute del paziente e per controllare che non vi siano infiammazioni o patologie nella loro fase acuta in corso. Un innalzamento di questa proteina nel sangue può verificarsi anche in seguito ad un intervento chirurgico, ma spesso e volentieri avviene anche in presenza di patologie importanti come il lupus  e l’artrite reumatoide. Per questo motivo è sempre importante non sottovalutare un aumento dei valori nel sangue, perchè potrebbero essere significativi e aiutare a diagnosticare una malattia anche seria.

 

Emoglobina bassa: le cause. Prenota subito un prelievo da Noi

L’ emoglobina bassa consiste in una quantità estremamente ridotta del pigmento dei globuli rossi, la cui funzione è quella di trasportare l’ossigeno agli organi e ai tessuti.

La sua diminuzione notevole può essere causata da patologie, deficit alimentari, problemi genetici e altro. Le eventuali terapie si legano all’entità della carenza, e alle ragioni che l’hanno determinata, e possono variare da semplici integratori alimentari, fino alle trasfusioni di sangue.

Un valore troppo basso di emoglobina causa un deficit di ossigeno all’interno dell’organismo, dovuto al fatto che questa proteina è ricca di ferro, il cui ruolo è quello di legarsi all’ossigeno e trasportarlo ai tessuti e agli organi. Poca emoglobina significa quindi un minore apporto di ossigeno, con conseguenti ripercussioni sulle funzioni degli organi.

La scarsa emoglobina nel sangue causa i sintomi tipici di una carenza di ossigeno da parte dei tessuti: stanchezza, debolezza, tachicardia, mal di testa, vertigini, senso di freddo, colorito particolarmente pallido. Un eccessivo abbassamento dell’emoglobina può portare a conseguenze anche gravi, tra cui un’insufficienza cardiaca dovuta alla mancata ossigenazione del cuore, che può provocare un infarto.

 

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